Josh Merritt è nato a Owensboro, Kentucky inizialmente, ancora quattordicenne, è stato coinvolto dal padre a suonare nella bluegrass band di famiglia, una passione che in lui non ha attecchito e solo dopo un po’ di tempo ha trovato la sua ispirazione in Jason Isbell, Todd Snider e John Anderson ed ha quindi, seguendo il loro esempio, portato la sua musica a raccontare quello che era, così come solo un vero storyteller riesce a fare al meglio. Josh ha fatto una lunga gavetta on the road aprendo i concerti di: Hank Williams Jr., Charlie Daniels Band, Colt Ford e tanti altri che gli hanno permesso, negli ultimi dieci anni, di farsi conoscere nel circuito musicale del sud. Nonostante abbia raggiunto i 30 anni, Reynolds Station è il suo primo album in studio, ma non è un disco qualunque, non una raccolta delle sue migliori canzoni scritte negli ultimi 10 anni… Reynolds Station è un concept album, sentito e voluto, che racconta della piaga che infligge il Kentucky rurale, quella dell’abuso di anfetamine. Josh si mette a nudo in queste canzoni, per la maggior parte completamente autobiografiche. Ha perso sua madre in giovane età vittima delle anfetamine ed è stato cresciuto dai nonni in una fattoria nella comunità di Reynolds Station, sperimentando sulla sua stessa pelle la dipendenza dalla quale è uscito da un anno e mezzo.
L’uso di metanfetamina è a partire dal 2000, è il più grosso problema delle aree rurali del Kentucky, in origine si produceva in casa, da poco ha fatto però la sua comparsa la Met 2.0, più forte, più economica e molto più abbondante della vecchia varietà casalinga, i piccoli spacciatori comprano metanfetamina in città più grandi come Cincinnati a circa $ 250 l’oncia e la vendono nel Kentucky rurale a $ 500.
Reynolds Station non è una lezione di vita ma è il racconto a cuore aperto della vita di Merritt, di come fosse circondato, nella maggior parte dei casi, da famiglie dipendenti da anfetamine e di come poter riuscire a fuggire da quella situazione. The high, che apre il disco, è una vera e propria testimonianza della dipendenza, della disperata ricerca di Sudafed (decongestionante nasale a base di feniletilammine e anfetamine) un “aiuto” per lasciarsi alle spalle la vita e la voglia di farla finita anche se solo per qualche istante. Racconta di disperazione, di disillusione e di pensieri di suicidio. Il disco suona meravigliosamente, le storie sono raccontate su melodie supportate da musicisti di esperienza come Robert Kerns (bassista di Sheryl Crow), Shakey Fowles (batterista di Kid Rock) e Peter Keys (tastierista di Lynyrd Skynyrd). Un disco dove si alternano intense ballate acustiche (How Many Times, Reynolds Station) ad altre dalla grande spinta elettrica (Best of me, Run), troviamo spruzzate di rhythm and blues in Live With That, da riascoltare più volte la meravigliosa Tonya Jo (chitarra e fiddle) e l’intensa conclusiva mid-tempo Fly Away. Josh dimostra di avere un grande talento e di saper scrivere e comporre, 10 canzoni secche, dirette, ben arrangiate e prodotte da Shannon Lawson di Louisville, Kentucky, che arrivano tutte direttamente sotto pelle, sprigionando una immediata empatia grazie anche alla voce di Josh che sembra accarezzarti anche quando ti porta in territori pericolosi trasmettendo sempre sicurezza e speranza.
Merritt con questo disco spera proprio, e credo ci riesca meravigliosamente, di dare una testimonianza di speranza a quelle persone che stanno davvero cercando di uscire dalla dipendenza, un disco che è molto di più delle belle canzoni che vi sono racchiuse, un disco che racconta la pancia dell’America, quella che i media non ci raccontano, quella che forse neanche l’America stessa vuole mostrare. Quando ho ascoltato il disco mi sono commosso e continuo a farlo ogni volta, sia per la bellezza delle canzoni, sia per le storie che raccontano. Grazie a Josh Merritt che vive la musica come vorrei che davvero tutti la vivessimo.