Da Rimini a Nashville… solo andata!!!
Ho seguito la gestazione di questo disco, canzone dopo canzone ascoltandole live, sentendole cambiare, maturare, crescere, mutare… e averlo ora tra le mani, nel bellissimo e curatissimo digipack, è un po’ come tenere tra le braccia un nipotino a cui ho imparato ad affezionarmi e a voler bene ma che mai avrei pensato di trovarlo già così cresciuto e maturo.
Haul in the nets, diciamolo subito, è un disco di Americana dove le voci di Michele, Marcello e Matteo sono lo strumento principale, una rara miscela sapientemente e perfettamente dosata di crema pasticciera, dolce, calda e soffice che riempie, avvolge e alza il tasso di seratonina e fa sentire a casa.
I due Backbones, Davide e Tommaso (basso e batteria), come un vero e proprio esoscheletro, sostengono alla grande i vuoti ritmici che il trio (due chitarre e un piano) altrimenti avrebbe trovato difficoltoso riempire in questo loro primo disco in studio di pezzi originali.
Per chi non li conoscesse i Nashville Trio hanno passato anni a fare gavetta reinterpretando egregiamente grandi classici della musica (CCR, America, Eagles e tanti altri), da ultimo una rilettura in chiave acustica delle canzoni dei Police! Proprio in occasione dell’uscita di Voices Inside My Head, durante la loro partecipazione alle Backstreets, hanno annunciato l’intenzione di fare basta con le cover per dedicarsi alla realizzazione di un disco di brani originali ….e così è stato, un po’ alla volta, testandoli durante i loro concerti sono arrivati a questo Haul in the net, uno stupefacente risultato arrivato in poco meno di due anni.
Gli intrecci vocali sono il marchio di fabbrica dei Nashville, tre voci che si incrociano, si scambiano, si sovrappongono senza che ci sia un lead vocal, tutti suonano e cantano in una alternanza senza cali di tensione una amalgama perfetta, suonano e cantano e lo fanno alla stragrande.
The place where we belong è un up tempo dal riff accattivante e travolgente, trovo sia un gran bel biglietto d’invito perchè predispone allo spirito di Nashville, a quello che da sempre è il loro modo di affrontare la musica, divertirsi e far divertire.
Outsider, da sempre la mia preferita, trova una seconda posizione che la colloca come una delle possibili hit single, semplice immediata, di quelle canzoni che la senti la mattina e ti rimanre in testa per tutto il giorno. Il giorno dopo un concerto dei nostri, mi sono ritrovato in macchina con una nusica in testa, l’ho canticchiata per tuto il viaggio e solo dopo un paio d’ore ho realizzato che fosse proprio Outsider che avevo sentito per la prima volta la sera prima… contagiosa… un loop pericoloso perchè crea assuefazione.
With my tears on, è il frutto di tanti ascolti, ma ancora una volta sorprende per la sua struttura immediata, grande ritornello e finalmente compare la clavietta di Miky Tani, sembrano in 12 a cantare ma sono solo in 3!!! un grande pezzo che sembra chiudersi ma poi improvvisamente si lascia andare in un reggae trascinante, trovata geniale e coinvolgente, Michele lascia il piano che si trasforma in tastierona e la canzone diventa irresistibile.
Song for Claire è epica, racconta musicalmente di quelle strade polverose degli states che i Nashville non hanno mai percorso fisicamente ma che dipingono magistralmente nei loro pezzi. Una ballata senza tempo sospesa nel vuoto, avvolgente ed ammaliante, niente solo di chitarra, ci pensano le voci e l’armonica di Marcello a farne un piccolo gioiellino.
Un altro dei grandi pezzi è Carry me, scarna e sapida con chitarre, il violino di Alice Minutti e voci a riempirla di grande emozione. Ho come la sensazione di sentirmi trasportato alla deriva dalla corrente del mare, cullato e sballottato dalle onde ma senza senza aver nulla da temere perchè, anche se perso nel blu, mi aggrapo a questa canzone e lei mi salva!
Blue eye in the sky è puro country con la voce di Matteo a farla da padrona, parte sorniona, ma una volta raggiunta dalla pedal steel di Eugenio Poppi e dal piano a muro di Michele diventa a dir poco travolgente… un po’ come entrare in un saloon, sputare per terra, appoggiare la colt sul bancone ed ordinare uno strizzabudella!
Night in on my own è bella, immediata, fresca e pulita, una ventata d’aria pura, un altro pezzo di grande respiro, che se fossimo in un paese “civile”, dal punto di vista musicale, potrebbe essere una “power hit” radiofonica ma, pensandoci bene, forse è meglio che certi tesori rimangano solo per pochi in modo da farci sentire un po’ più ricchi di tutta l’altra gente che non conosce Night in on my own. Guardare le persone che passano per strada con la canzone in cuffia e pensare sorridendo… io ho qualcosa in più di te e non sai cosa ti perdi, è una sensazione impagabile!
Goodbye Dolce Vita rasenta il bluegrass, il banjo a sottolinearne la ruvidezza e la giocosità di una storia di un ragazzo che diventa padre e deve dare l’addio alla vita precedente da “singletudine”…scritta per gioco forse il giorno in cui Marce annunciò agli altri che sarebbe diventato padre!!!???
Too much love sembra uscita dagli anni ’60, la chitarra richiama un riff Claptoniano, poi prosegue con un mid tempo, poi gran voci, bel ritornello, mini solo… insomma lo stilema della costruzione perfetta!
Snow è solo tasti bianchi e neri e voci serve come da interludio a Plastic paradise che conclude il disco, una canzone che live regala tutto il meglio di se in un crescendo strepitoso, tesa ed intrigante che arriva ad esplodere nel triello finale, al quale si è aggiunto per l’occasione anche Omar Bologna, un pezzo d’altri tempi che necessita di un grande coraggio compositivo, una classe vocale cristallina e una grande padronanza strumentale… un gioiello che è una degna conclusione di un disco sorprendentemente spettacolare.
I suoni sono belli, ben curati e ricercati, ogni cosa è al suo posto e nulla di questo disco sembra essere lasciato al caso, tutto curato fin nei minimi particolari. Le voci sono pulite, sempre bene in evidenza ma senza mai essere troppo preponderanti, belli gli arrangiamenti che a volte hanno tolto dove occorreva e a volte hanno messo legna sul fuoco dove mancava (piacevole la chitarra elettrica di Marce presente in molti brani, le due padal steel e alcune altre soluzioni azzeccatissime) il disco suona con un grande equilibrio, non facile per un gruppo alle prese con il primo disco di brani originali in studio. Un Bravo (con la B maiuscola) a Cristian Bonato che ha Mixato e registrato il disco. Ma i ragazzi hanno studiato e si sente, sanno suonare eccome! e sanno cantare eccome! due doti importantissime che valorizzano ancora di più il lavoro svolto. Il merito va anche ai due BackBones: Davide Mastroianni e a Tommaso Taddei, che hanno saputo fondersi alla perfezione nell’affiatamento ormai decennale dei Nashville diventandone oramai una parte imprescindibile. Chiaramente può accadere anche che un paio di brani siano un po’ più deboli e che avrebbero richiesto di più rodaggio “on the road” altri invece sono belli, solidi, stagionati e ben consolidati ma, amici, mi sento di dirvi che questo è un gran disco, da avere, da ascoltare e da regalare, un disco di “Americana” come pochi sanno realizzare anche negli states dove i nostri TRE potrebbero benissimo passare per nativi visto anche l’ottimo uso della lingua inglese. Bravi Nashville e bravi BackBones ci si rivede on the road, questo disco è una bella sorpresa ma anche una conferma di quanto di buono avevate già dimostrato live, non era facile… prova superata a pieni voti! Sono orgoglioso di aver sempre creduto in voi!